Lo scorso 25 novembre si è celebrata la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. Numerose sono state le manifestazioni, cortei e convegni in molti Paesi, tra i quali l’Italia, per ricordare chi ha subito e subisce quotidianamente violenze di genere.
Sono passati ormai quasi vent’anni dall’istituzione di questa particolare ricorrenza da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, in ricordo dell’uccisione nella Repubblica Dominicana delle sorelle Mirabal il 25 novembre 1960, barbaramente assassinate in quanto oppositrici della cruente dittatura di Rafael Leónidas Trujillo, ma il tema appare a tutti quanto mai attuale.
Solo per rimanere nel nostro Paese, secondo recenti statistiche dall’inizio dell’anno fino ad oggi si sono registrati quasi centoventi femminicidi e, mediamente in un caso su tre, il principale indiziato del delitto risulta essere il partner. In pratica, con buona approssimazione, in Italia muore una donna ogni due giorni per mano di chi dice di amarla.
La stragrande maggioranza di queste violenze si consuma tra le mura domestiche e, benché i contesti siano spesso differenti ed eterogenei, è innegabile la sussistenza, in tutti i casi, di un evidente minimo denominatore comune, vale a dire la generale tendenza a minimizzare la gravità dell’evento, spesso ricondotto nell’alveo dei “delitti passionali”, se non addirittura di quei crimini imprevedibili e senza alcun movente specifico che il classico “insospettabile”, per rimanere fedeli alla retorica propria delle cronache, commette in preda ad un incomprensibile “raptus” di follia omicida, magari scaturito all’esito della ennesima lite domestica.
Non di rado, peraltro, parte dell’opinione pubblica appare incline a relegare il fenomeno unicamente nella sfera del disagio sociale, ovvero a ritenere con un chiaro pressappochismo che il problema riguardi unicamente le fasce più in difficoltà della popolazione, soprattutto immigrata, o quelle culturalmente meno attrezzate.
La verità, a ben vedere, è un’altra. La frequenza con cui tali episodi di violenza si susseguono dimostra, infatti, che la questione è ben più complessa ed articolata e, in ogni caso, che è alquanto improprio trattare tale fenomeno alla stregua di una situazione atipica ed eccezionale.
Quello della violenza contro le donne è un problema che riguarda evidentemente l’intera nostra società che, purtroppo, non ha ancora sviluppato sufficienti anticorpi per combatterlo.
Molti uomini, a volte anche senza averne piena consapevolezza, hanno chiaramente maturato la primitiva convinzione che la donna (sia essa moglie, fidanzata, figlia o sorella) altro non sia che una propria sottoposta, cui non è consentita non soltanto una vera e propria emancipazione, ma addirittura alcuna ribellione o renitenza di sorta rispetto ai propri dettami.
L’atto di violenza, in tale distorta prospettiva, rappresenta la più logica e naturale delle reazioni ad un qualsiasi atto di insubordinazione, com’è tipico di una società patriarcale.
Per contrastare il dilagante fenomeno della violenza sulle donne non servono nuove leggi, in quanto sono già più che sufficienti, per non dire sovrabbondanti, le norme attualmente in vigore. Quel che occorre, in realtà, è un mutamento di ordine culturale della nostra società che investa, in primo luogo, il piano delle relazioni tra i sessi, in linea con il principio costituzionale di parità e rispetto reciproco tra uomo e donna, evidentemente in concreto ancora inattuato.
In definitiva, ben vengano le ricorrenze e tutte le lodevoli iniziative di sensibilizzazione alle stesse correlate, perché iniziare a considerare il “femminicidio” e, più in generale, i maltrattamenti sulle donne un tema di rilievo istituzionale costituisce certamente un approdo di non trascurabile importanza.
Occorre però la consapevolezza che la vera battaglia contro questi episodi di violenza va combattuta ogni giorno e non solo il 25 novembre di ogni anno, contrastando quella latente e generalizzata subcultura che fonda su un anacronistico e stereotipato legame di subalternità della donna nei confronti dell’uomo.